Paolo Benvegnù: “È inutile parlare d’amore”
We’ve got five years (six times)
La premessa necessaria è che conosco Paolo Benvegnù da oltre trent’anni: da quando un’ancora poco nota band di nome Scisma vinse un concorso rock nella mia città. Correva il 1993 e vinse senza storia, perché in quel momento avrebbe vinto qualsiasi cosa. Gli Scisma erano se possibile ancora più irruenti di come li ricordiamo dopo l’approdo alla discografia ufficiale.
Il premio del concorso, nel bene e nel male, fu un monte ore nel mio studio di registrazione aperto da poco, finalizzato alla realizzazione di una demo poi pubblicata su cassetta con il titolo “Pezzetti di carta”. Legai subito con la band, ma soprattutto con Paolo: eravamo diversi, ma uniti da una palpabile vena sotterranea. In seguito realizzai parte delle registrazioni del loro primo album autoprodotto, “Bombardano Cortina”. Per ragioni che non vale la pena di ricordare, ci perdemmo poi di vista, ma ci ritrovammo una decina di anni dopo. Con una sorpresa: riprendemmo a parlare esattamente da dove ci eravamo interrotti, come se il tempo non fosse esistito.
Da allora siamo sempre rimasti in contatto. Magari non ci sentiamo per un intero anno, ma questo non cambia le cose. Nel 2021, in Molise, abbiamo condiviso un progetto con Miro Sassolini e Monica Matticoli, ridendo dei ventotto anni che ci erano serviti per salire finalmente su un palco e suonare insieme. A sorpresa, a fine 2023 mi è stato proposto di intervistare il mio vecchio amico e fratello in occasione dell’uscita del nuovo album “È inutile parlare d’amore”, inviatomi in anteprima. Quell’intervista è a questo link.
Una recensione
“È inutile parlare d’amore” (Woodworm) viene pubblicato in digitale il 12 gennaio 2024, e in fisico una settimana esatta più tardi (pre-ordine qui). Questa è la mia recensione, unita a un’intervista che è in realtà uno scambio in codice tra anime affini che si frequentano da tre decenni. Quanto segue è dunque un flusso di pensieri coerenti, ma generati da un magma che dura da trent’anni: nascono dall’incoerente, per definizione.
Ho deciso di fare l’intervista dopo avere ascoltato il disco, perché ho avuto la sensazione di trovarmi davanti a quella che diventerà una delle pietre miliari della musica italiana (quella vera) del 2024. La prova precedente, “Dell’odio dell’innocenza” (Black Candy, 2020) mi era parsa di buon livello ma non mi aveva convinto fino in fondo. Tra alcuni brani molto incisivi, altri mi sembravano meno a fuoco. Anche in precedenza, talvolta, avevo avuto l’impressione che alcune canzoni fossero gemme mancate: non tanto per una ridotta capacità dell’autore, ma per una sua reticenza a scriver-si realmente. E così, de-scriversi. Era, insomma, come se Paolo Benvegnù perdesse l’equilibrio proprio nel momento in cui tentava di essere il più simile possibile a Paolo Benvegnù, e lo conoscevo troppo bene per non accorgermene.
“È inutile parlare d’amore” cambia decisamente le carte in tavola. È un concept album che sottende una storia strutturata, che Paolo chiama “il romanzo che ho nella testa”. Insieme ai brani ho ricevuto dense annotazioni che delineano una vera e propria sceneggiatura cinematografica. Sarebbe bello pensare a un film senza dialoghi, sonorizzato soltanto dai brani, ma – per citare Franz Kafka – questo mai e poi mai potrà avvenire. Non potrà, perché l’autore stesso riconosce che questo lavoro è “Smarrito, inutile. Non visto. Crescente. Ineluttabile.” Lo è perché, come ha recentemente dichiarato Umberto Maria Giardini in un’intervista a Rolling Stone,
non si scrivono più cose importanti perché la società non è più importante. L’essere umano è passato in secondo piano, non conta più un cazzo rispetto ai numeri.
Questa considerazione meriterebbe un approfondimento che condurrebbe Altrove. A ben guardare, l’esistenza di questo blog è motivata esattamente da questo fatto, che si manifesta diversamente a ciascuno. Allo stesso modo, il nuovo album di Paolo si nutre della stessa motivazione, solo su un livello assai più alto. La situazione attuale personalmente mi grida in faccia di dare spazio all’inutile, in base alla semplice considerazione che spesso le cose che consideriamo meno desiderabili si rivelano essere le più fondamentali per la nostra vita. Ma lo scopo, qui, è parlare di un album che già incute timore per la sua estensione e la sua complessità. Quindi, non divago.
Solo fiori prima dell’album
I primi segnali che una nuova prova discografica fosse in arrivo risalgono al mese di aprile 2023, quando apparve l’EP “Solo fiori”. A inizio dicembre, “Canzoni brutte”, un singolo che manifesta coraggio e complessità, perché isolato è difficile da inserire nella vena principale di Paolo. A un primo ascolto può sorgere il dubbio del suo abdicare al ruolo di cantautore raffinatissimo e di spessore, per abbracciare un mondo più vicino al pop: nobile e di livello, ma pur sempre pop. La verità è che il brano fa parte di una collezione molto strutturata di canzoni, e solo l’ascolto nel contesto dell’album ne svela il ruolo e il valore.
Un disco, però, dovrebbe essere un monolito che unifica l’inevitabile strutturazione derivante dal fatto che si tratta di una collezione di canzoni. Un album ha un punto di ingresso e un punto di uscita, che sono il primo e l’ultimo brano, e in mezzo c’è un viaggio: a seconda dei casi, psichedelico come il Magical Mystery Tour o noioso come una compilation di musica trap. In questo caso specifico, il punto d’ingresso ha un titolo che non sfigurerebbe nel repertorio dei CCCP: “Tecnica e simbolica”. Un brano al quale viene affidato il difficile compito di convincere qualcuno ad ascoltare tutto ciò che segue. Ascoltare, non semplicemente sentire, due attività cognitive molto diverse tra loro.
Ebbene, ammetto di non avere parole. Paolo ha messo a segno uno degli incipit più incisivi che si possano trovare in un album italiano negli ultimi dieci anni. Ammetto anche la mia debolezza: posso resistere a qualsiasi cosa, ma non a chi è in grado di descrivere la contemporaneità, sinteticamente e senza filtri. Contemporaneità intesa come ciò che David Bowie, che ci manca da otto anni esatti nel giorno in cui stendo queste parole, chiamava Zeitgeist: lo spirito del tempo, il soffio culturale che pervade nel bene e nel male ogni epoca. Non riesco a descrivere “Tecnica e simbolica”, se non rubando a una cara amica parole che lei usò in un contesto diverso: “Un infinito ridotto a sistema”. Se un giovane umano, o un alieno (stessa cosa, temo) mi chiedessero cosa siamo ora e qui, nel 2024, potrei allungargli la canzone: “Siamo questo”. È un dipinto incarnato della nostra società, alla fine del primo quarto del ventunesimo secolo, sul terzo pianeta in ordine di distanza dalla stella Sole, chiamato Terra.
Il mio ottimismo mi spinge a credere che chiunque ascolti questo brano possa riconoscersi in esso, e che se ciò non accadrà sarà semplicemente perché quel chiunque non vorrà riconoscersi. Basta una riga del testo per capire: “Restate a terra: c’è un uomo in mare.” Equivale a dire, cenate pure tranquillamente mentre uno dei telegiornali di regime annuncia la morte dell’ennesima bambina uccisa a Gaza, dimenticandosi degli altri diecimila. Masticate sereni con i cadaveri sullo schermo, perché nulla ci tocca più, anche se saremo orribilmente lacerati dalla morte del nostro pesce rosso. Le vittime, che sono le nostre, sono diventate virtuali come i giorni che fingiamo di vivere. Diamo quindi serenamente da mangiare ai cani, se qualcuno ci spiega come fare.
Queste sono le vele del tempo presente, spiegate verso un futuro che stavolta per davvero potrebbe non esserci. Da che porti venute? Per andare dove? E noi?
Traccia per traccia no
Nella prima stesura di questa recensione ho descritto per quanto possibile i singoli brani, percependo però un sottile disagio nel procedere. Era causato dalla sensazione di svelare la trama di un film. “È inutile parlare d’amore” è un album che va vissuto, non descritto in maniera troppo puntuale: anche perché non è spiegabile in termini semplici.
Per questo salterò a piè pari tutto il contenuto intermedio, atterrando su “Alla disobbedienza”, che conduce fuori dal labirinto. Un brano di otto minuti, molto strutturato, pura canzone d’amore in cui si conclude che tu, altro da me che mi stai davanti e mi guardi, sei l’unica cosa che conta, con il tuo contenuto contraddittorio di luce e ombra. Vale la pena di menzionare gli ultimi quattro minuti, in cui le parole scompaiono: dopo un colpo di piatti che sembra chiudere tutto, inizia un’accorata sinfonia in cui gli strumenti si cercano, con cautela e grazia. Paolo dichiara che questa musica gli evoca l’immagine dell’umanità che si tiene per mano: immagine luminosa ma improbabile, allo stato attuale del mondo. L’urgenza dell’inizio del disco, il suo galoppo ritmico, si liquefanno in un brano minimale in cui una linea melodica quasi dodecafonica si dipana su un mare di luce. Spesso la affianca una contromelodia che collide con la prima, accompagnandola fino all’uscita in cui davvero le due voci si tengono per mano.
Sono le voci dei due protagonisti che, questo si può dire, attraversano tutto il disco. Talvolta in pace, talvolta in tempesta, mai con placidità se non in questo finale che vale una carriera. Da un lato, auguro a Paolo di produrre album per altri cento e mille anni; dall’altro, se la storia si concludesse qui, sarebbe abbastanza: finirebbe su un accordo che non sa bene se vuole essere Fa maggiore o la minore. Fa bene a non decidere, perché ci sta dicendo che la verità non è fatta di zero e di uno, ma è una faccenda ben più complessa, instabile e indefinita come la realtà stessa.
Pur evitando la descrizione brano per brano, però, non si possono non menzionare le partecipazioni di Brunori Sas e Neri Marcorè, rispettivamente in “Oceano” e in “27-12”. Due canzoni a loro modo antitetiche: di distanza incolmabile la prima, di vicinanza impossibile la seconda. La chiave di questi brani, e di tutto il disco, è la polarità tra luce e buio, femminile e maschile, primordiale e tecnologia estrema. La poesia spesso interiore fino al midollo di Paolo raggiunge vette elevate, e molto si nasconde sotto le parole. Più volte, ascoltando il disco, rimbalzava nella mia mente il verso forse più alto Bon Iver: “Il cielo è il grembo e lei è la luna.” Forse parole come queste potrebbero riassumere l’album, come un Bignami. Ma, per fortuna, siamo in presenza di un lavoro che non vuole saperne di farsi ridurre a una collezione di canzoni, perché è monolitico.
L’invito
L’invito, inevitabile e imperdonabile, è di entrare nel labirinto ascoltando il disco. Sbatterete per forza sui muri, incontrando i pescatori di perle in volo, Marlene Dietrich, Tamara De Lempicka e Rodolfo Valentino (muto), la distanza degli istanti del mondo, le canzoni brutte, i figuranti antropomorfi che siamo diventati, il vero senso della parola “libero”, la sottile linea che sfuma l’amore in una violenza che non può fare male, l’inutilità del parlare d’amore. Se tutto questo sembra delirante, la soluzione è una sola: ascoltare.
Anche perché avete ben due scelte:
Sul supporto Vinilico, che abbisogna di cambiare lato del supporto per ascoltare, abbiamo pensato ad una narrazione adatta ad una sala da tea, che abbiamo denominato Peach blossom’s cut. È una versione più compatta, agile, in purezza. L’ideale per un pomeriggio invernale.
La versione digitale, disponibile in forma fisica anche su CD, è adatta ad un ascolto in automobile, ad una sessione di jogging, perfetta per una escursione in montagna. Contiene una narrazione più estesa, un finale con titoli di coda immaginifici. L’abbiamo denominata Hidden Dragon’s Cut. L’ideale per un ascolto in assoluta continuità. Due formati, con diverse caratteristiche, pensati per situazioni di vita diverse. Su misura per ogni esigenza.
Quanto è bella l’ironia, quando è rivolta verso il proprio lavoro come una carezza? In un mondo ideale, di un disco come “È inutile parlare d’amore” si parlerebbe – paradossalmente! – per anni. Vedremo cosa accadrà, la speranza è l’ultima a morire. Nel frattempo, alcune date di presentazione sono già state annunciate. Le trovate qui sotto, e a qualcuna ci sarò, per forza di cose. Parlare d’amore è inutile, scriverne forse meno, viverlo è essenziale.