Olovisione in parte quarta

Della necessità di scegliere

Di solito ciò che scrivo prende il via da un titolo, ma non questa volta. Ci sto pensando da un’ora, ma non lo trovo. Non trovo molte cose, in questo periodo: me stesso in primis. Dichiaro la mia crisi, ma non nel senso comune del termine: penso alla parola krisis in lingua greca, con il significato di scelta. In altre parole, sento di dover prendere una decisione non procrastinabile, né revocabile.

La crisi è iniziata verso le 16 del 31 dicembre 2024, nel modo più improbabile: una telefonata da Barcellona in cui Flavio Ferri mi chiedeva se fosse confermata la voce relativa alla morte di Paolo Benvegnù. Mi misi a ridere. Impossibile, risposi, era in televisione ieri sera. Flavio però mi riferì che lo avevano chiamato: a Perugia, dove Paolo viveva, si diceva proprio questo. Sul web non c’era ancora nulla, e sembrava lecito sperare che si trattasse di una notizia falsa. L’illusione sfumò quando le agenzie iniziarono a diffonderla, pochi minuti più tardi.

Foto di Antonio Viscido.
Foto di Antonio Viscido.

1993-2024

Conosco Paolo da trentuno anni. Come ho avuto modo di affermare durante la commemorazione in suo onore tenutasi a Perugia il 19 gennaio scorso, non mi piace dire che l’ho frequentato: semmai, ho avuto il privilegio di essere suo contemporaneo. Nel 2024 ci siamo incontrati più volte, facendo progetti condivisi per il futuro. Lo ammiro come artista, più di quanto riesca a esprimere a parole. Questo però non mi spiega come, nel giro di pochissimi secondi, il 31 dicembre mi abbia pervaso la sensazione di avere perso ogni riferimento. Mi sento tuttora come una bussola alla quale abbiano spento il nord magnetico: la lancetta posizionata a caso indica un punto privo di significato.

In quel pomeriggio al tramonto del primo quarto del ventunesimo secolo, nel giro di pochi minuti iniziarono quelli che oggi mi paiono trentuno anni di telefonate. Quelle che feci io, quelle che ricevetti, i messaggi, persino le email. Fino a notte fonda, senza tregua. E il giorno dopo. E quello dopo ancora. E ancora. Tutti attoniti, smarriti oltre ogni possibile immaginazione. Scoprii che un nutrito gruppo di persone, solo apparentemente non connesse, era stato investito da uno tsunami.

La lunghezza dell’onda

Un secondo tsunami investì me personalmente, solo due giorni dopo, al mio rientro dalla Camera Mortuaria degli Spedali Civili di Brescia. Passaggio difficile, perché la condivisione del dolore è un’illusione. Il dolore, nel migliore dei casi, si moltiplica, anche se la sua proliferazione alla fine è curativa. In alternativa, incancrenisce in solitudine. Il mio personale tsunami resterà tale, almeno per ora, ma ne accenno perché si trattò di un evento imprevedibile che mai si sarebbe verificato senza la morte di Paolo. Fu il primo di una lunga serie.

Quanto dura l’onda del lutto per un personaggio pubblico? Di solito pochi giorni. La scomparsa improvvisa di un uomo di neanche sessant’anni fa più effetto di una morte in tarda età, magari dopo lunga malattia, ma in questi tempi rapinosi le onde si sgonfiano in fretta. Non questa, che nell’arco di un mese non si è placata affatto. Ricevo ogni giorno messaggi di persone a me sconosciute che vogliono parlarmi di lui, raccontare, capire se possibile. Ogni volta mi chiedo perché cerchino me, ma soprattutto mi sento impotente: posso ascoltare, attingere ai miei ricordi, ma capisco quanto loro. Sento però uno spirito di comunione che non percepivo da anni, e che non ho mai percepito di fronte alla scomparsa di un cantante o comunque di un uomo di spettacolo. Forse l’unico precedente al quale posso pensare è quello di David Bowie.

Il paragone è però abnorme: Bowie era una rockstar di fama planetaria, con un seguito smisurato. Paolo Benvegnù era un cantautore italiano che non ha mai raccolto la visibilità che meritava. Per una paradossale beffa del destino, solo nell’ultimo anno di vita aveva iniziato a essere riconosciuto, vincendo la Targa Tenco per il miglior album (“È inutile parlare d’amore”, Woodworm 2024) e godendo di un minimo di esposizione mediatica anche fuori dai canali indipendenti. Un traguardo, dopo venti anni di carriera solista ai massimi livelli e di coerenza estrema.

Isola della Scala (VR), 22/11/2024. Foto di Marco Olivotto.
Isola della Scala (VR), 22/11/2024. Foto di Marco Olivotto.

Credere, non credere

La mia formazione scientifica mi rende piuttosto scettico. Da un lato, ammetto serenamente che non tutto è spiegabile; dall’altro, sto attento a non attribuire l’inspiegabile a cause sovrannaturali. Credo però nella statistica, che non ha a che fare con la casualità cieca, bensì con la probabilità. Se si verifica un fenomeno strano, è una coincidenza. Se questo accade due volte, è una coincidenza rara. Alla terza volta si inizia a sospettare che esista una causa. A venti volte, l’esistenza di una causa diventa certezza granitica.

È esattamente questo che mi sorprende: com’è possibile che un numero così elevato di persone diverse, con entroterra diversi e sentimenti diversi, provino la stessa cosa davanti alla scomparsa di un artista eccelso ma non così noto? Vale per chi abbia lavorato con lui, per chi lo abbia seguito nel suo percorso artistico, per chi lo abbia conosciuto innanzitutto come essere umano. La reazione collettiva è corale e compatta. I verbi del lamento sono gli stessi: “manca”, “fa male”. Le conclusioni, pure: “restiamo uniti”, “facciamo”. Nel mezzo, parole come “crisi”, “legnata”, “svolta”.

Questo non si può spiegare semplicemente con la scomparsa di un artista, musicista, poeta, non importa di quanto valore. Anche perché il suo lavoro rimane, è fruibile, e in quel senso immortale per chi lo vorrà. Né si può spiegare con il carisma della persona, enorme ma percepito diversamente – per dire – da chi si recava ai concerti e da chi lo frequentava da una vita.

Tantomeno si possono spiegare le connessioni che si sono create: persone estranee fino a ieri che si trasformano in interlocutori quotidiani, fonte reciproca di confronto e conforto; persone malamente sparite dai radar che si rifanno vive, riaprendo consapevolmente antiche sacche di dolore in nome di qualcosa di più importante; persone conosciute che iniziano a considerarti parte in causa di qualcosa che non ti aveva minimamente riguardato fino a pochi giorni prima, e tu che fai lo stesso con loro. Un mistero insondabile con un unico denominatore comune: Paolo Benvegnù.

Memorie molisane

Nei giorni scorsi ero al telefono con Monica Matticoli, la poetessa e performer che condivise con Paolo, Miro Sassolini e me il progetto “La nebbia sale dalla terra” rappresentato a Carovilli (IS) nel 2021. Stavamo rievocando quell’avventura, durata pochi ma intensissimi giorni, alla luce di Paolo. Un’avventura segnata da una raffica di eventi negativi che rischiarono di mandare all’aria il progetto: l’auto di Paolo che fuse il motore rendendogli impossibile arrivare in tempo; le intemperie spaventose che costrinsero a spostare il primo dei due concerti previsti al giorno successivo; il computer di Paolo (giunto con Miro grazie a un tassista, alle due del mattino) che cessò di funzionare imponendo una disperata riscrittura delle parti; lo stesso computer che ripartì nel momento in cui la riscrittura era stata ultimata. Abbastanza stranezze da scriverci un libro, legate dalla sensazione costante che l’idea di portare in scena quello spettacolo avesse mosso forze contrarie e non comprensibili.

Durante la telefonata con Monica, per la prima volta, mi è apparso uno sprazzo di luce, come una linea d’orizzonte verso cui dirigermi. È intermittente, ma è anche l’unico riferimento sensato nel mio tormento che non accenna a spegnersi. Mi è balenata l’idea che le persone che si stanno connettendo in nome di Paolo stiano formando una rete, forse inconsapevolmente, la cui missione è quella di tenere vivo il messaggio enorme che Paolo ha infuso nella sua arte per tutta la sua vita.

Con Laura a Carovilli (IS), 26 agosto 2021, prima di andarcene. Foto di Marco Olivotto.
Con Laura a Carovilli (IS), 26 agosto 2021, prima di andarcene. Foto di Marco Olivotto.

Il respiro si ferma

Matteo Anceschi, che di Paolo è stato amico intimo per un tempo paragonabile al mio, mi fa notare che tutto sembra già scritto nell’incipit di “Pezzetti di carta”, la prima registrazione degli Scisma da me realizzata da nel 1993. Le prime parole che il mondo udì dalla voce di Paolo: “Il respiro si ferma: ora sei. Riconosci la luce?” Si riferiscono chiaramente a un decesso, ma è l’unica interpretazione possibile? Ne intravvedo un’altra, che suggerisce che dopo la morte (una morte, quella morte) tocchi a noi essere. E riconoscere la luce, ovvero una direzione.

La poetica di Paolo è così complessa e a tratti criptica che è impossibile riassumerla in poche battute, ma il filo generale che la attraversa è ben chiaro: viviamo una vita potenzialmente meravigliosa che stiamo distruggendo. La distruzione passa per l’ecologia, l’economia, la politica, i rapporti sociali, e prima ancora i rapporti umani. In particolare, passa per l’amore: un sentimento da lui sempre cantato che non va inteso nel senso più romantico del termine, ma come qualcosa di ben più viscerale, al limite dell’inesprimibile. Una realtà, più che un sentimento, che potrebbe diventare universale se solo avessimo il coraggio di accettarla. L’accettazione è un passo difficile, perché implica una visione obliqua, il superamento delle convenzioni e l’ardire di accettarci per ciò che siamo, perdonando innanzitutto noi stessi. Una delle cose più difficili da fare per qualsiasi essere umano.

Treviso, Suoni di Marca 2024. Foto di Raffaella Vismara.
Treviso, Suoni di Marca 2024. Foto di Raffaella Vismara.

È inutile parlare d’amore?

Anche il titolo del suo ultimo album di inediti, “È inutile parlare d’amore”, va in questa direzione. Intervistai Paolo il 19 dicembre 2023 (trovate l’intervista a questo link), poco prima della comparsa dell’album che avevo ascoltato in anteprima. Lo avevo percepito come un capolavoro, e mi spinsi a dire varie volte che avrebbe vinto la Targa Tenco, come poi di fatto avvenne. In quel contesto, chiesi a Paolo se il titolo, di per sé ambiguo, sostenesse che non valga la pena di parlare d’amore, o piuttosto che l’amore non debba essere oggetto di analisi perché va semplicemente vissuto. Riporto in forma quasi integrale la sua risposta:

Il secondo che hai detto. (…) Se è inutile parlare d’amore, allora è inutile anche parlare di vita, di pensiero, di creazione… di tutto. Allora è tutto inutile: ditemi che è tutto inutile. In quel caso, io faccio della mia vita un tesoro di utilità, parlando d’amore, pensando l’amore. Quello che penso è che l’amore è l’unica libertà che ci rimane, quantomeno lo sarà nello scenario futuro: tuo figlio, mia figlia vivranno in un mondo in cui l’unica possibilità per non essere comprati sarà amare in maniera folle: come tu hai fatto e come io ho fatto. (…)

“Come tu hai fatto e come io ho fatto.” Vero, ma come poteva saperlo? Gli chiesi anche se nei suoi testi certe aperture a questioni universali e profonde fossero conscie o se uscissero in maniera spontanea e non ragionata. Mi rispose che si trattava di una scelta conscia, e argomentò:

(…) È come se a un certo punto avessi maturato una serie di esperienze che hanno fatto scattare un meccanismo di sguardo diverso. (…) La verità è una somma di tante verità, innanzitutto, anche quando arriva al binario morto dello 0 e dell’1, del digitale per intenderci. Anche quando una cosa è viva o una cosa è morta si vede chiaramente: non è quella la verità. C’è altro. Così come la realtà che viviamo è una cosa che noi ci forziamo a vedere come realtà. Quindi a me viene a pensare che la vita degli uomini sia fatta anche da realtà adiacenti (…). E che il tempo che noi viviamo percependolo come se fosse una grande clessidra si possa distorcere, e che all’interno di questa distorsione del tempo – esattamente come succede per legge universale – ci siano delle pieghe che noi non vediamo quasi mai, e quando ci entriamo tutto è altro, tutto diventa diverso, tutto è altrove e noi assumiamo un’altra forma. Perciò l’amore tra due esseri umani non dipende neanche dalla forma, ma dal sentire.

“Quando una cosa è morta… non è quella la verità.” Questi due pensieri bastano per comprendere tutto. Contengono i due capisaldi della sua filosofia: l’amore, o piuttosto l’Amore, come unica forma di libertà possibile, e l’esistenza di dimensioni insondabili ma del tutto reali che percepiamo solo occasionalmente. Che, aggiungo, possono portare a momenti di illuminazione.

Nelle città visibili

Forse lo smarrimento che talvolta proviamo rientrando a casa dal lavoro o dal supermercato, nel momento in cui percepiamo che qualcosa nella nostra vita non va come vorremmo, non è dato solo da una consapevolezza interiore. Potrebbe essere la manifestazione fugace della Cosa luminosissima che siamo, in una dimensione parallela, ci dice Paolo. Potremmo diventare quella Cosa anche in questa realtà, nel quotidiano, se solo avessimo il coraggio di accettarla.

Non vedo alcun idealismo dietro questa posizione: il mondo è giunto a un punto di sfacelo tale che non ha senso pensare di cambiarlo con un atteggiamento individuale. Al massimo, una somma di atteggiamenti individuali potrebbe produrre qualcosa nel collettivo, ma vedo difficile un’inversione di rotta.

Il rovescio della medaglia, però, è che questa presa di coscienza (che deve prima o poi tradursi in azione, negli ambiti più diversi) sia l’unico modo per sopravvivere nel nulla che noi stessi abbiamo contribuito a creare. Lo afferma anche Marco Polo, per tramite di Italo Calvino, nel finale de “Le città invisibili”:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Il mondo e la sua origine

Ci ritrovo esattamente ciò che afferma Paolo in quel fulmine di spada che è “L’origine del mondo”:

Ti voglio come un Dio violento, dentro all’inferno degli uomini
Noi siamo il nostro Dio violento dentro al deserto degli uomini
E insieme sconfiggeremo il tempo

Per concludere:

Io non sono niente se non nelle tue mani
Liberati per sempre, condannati al domani
Miserabili, voi non capite le mie parole di sangue
Schiavi dei vostri schiavi, voi non sentite le nostre parole di sangue

C’è una furia iconoclasta in questi versi sospesi tra implorazione e invettiva. Paolo ha ogni ragione di definire “miserabili” e “schiavi” coloro che non si sforzano di comprendere le parole che, alla prova dei fatti, rappresentano forse l’unica verità degna di essere perseguita.

Paolo ci sta implorando di accettare che siamo irrilevanti se non ci posizioniamo all’interno di una relazione reciproca profonda, non-mediata, senza che il giacere nelle mani altrui implichi alcuna forma di possesso. Un concetto così elevato che rischia di non trovare posto nella mente. In molte menti, temo.

Finalmente un titolo

Solo a questo punto riesco a concepire il titolo di questo articolo, mentre sto ascoltando H3+, forse l’album più disallineato e ostico di Paolo. Il riferimento è a “Olovisione in parte terza”, che considero una delle più belle canzoni d’amore scritte nell’ultimo decennio. Per dirla con Giorgio Gaber, “No, non dico l’amore che possiamo anche fare, ma l’amore.” (“L’impotenza”, 1973)

Con “parte quarta” indico quello che mi pare essere il vero lascito di Paolo. È come se la sua dipartita avesse innescato in molte persone un senso di responsabilità. Come se il suo ultimo messaggio fosse: “Sono arrivato fin qui, chi vuole andare avanti proceda.” Questo richiede per forza di cose una scelta, una krisis, uno schierarsi esplicito e dichiarato. Richiede una rinuncia interiore, in primo luogo, a uno status quo asfittico e ormai stantio.

Søren Kierkegaard, che costruisce di fatto un sistema filosofico intorno al concetto di scelta, investendo concetti come la libertà, mi ammonirebbe sul fatto che ogni scelta nasce da un processo che si svolge nella più abissale solitudine. Lo accetto, e bene lo sapeva anche Paolo: le battute che separavano una canzone dalla successiva, dal vivo, facendo sbellicare il pubblico dalle risate, avevano una funzione precisa: “Le faccio per non restarci sotto”, mi disse, “e perché non ci restiate sotto voi.” Ciò che affermava era così imponente e definitivo, alle volte, che il rischio di cedimento era reale.

Più grande è l’angoscia, più grande è l’uomo: è di nuovo Kierkegaard a ricordarlo, con l’avvertenza che l’angoscia non è esteriore ma nasce e cresce nel nostro intimo. Non abbiamo alternative: “Accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.” Oppure “Cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Scelgo la seconda, senza un piano B che alla fine servirebbe solo per distogliere energia e attenzione dal piano A. Ciò che ci circonda, il pietoso degrado morale che permea ogni cosa, lo sfaldarsi di tutto, suggerisce che non rimanga molto tempo. Voglio pensare che se dovessi riuscirci, anche solo all’1%, il mio più grande amico non avrà vissuto per nulla.

Vengano dunque la parte quarta, il crollo, lo squarcio. Chi è pronto?

Illustrazione di Davide Toffolo.
Illustrazione di Davide Toffolo.