La paura e il cuore di Cristiano Godano
Un traguardo, una ripartenza
Trent’anni di carriera non sono noccioline. Se la carriera consiste nell’appartenenza ai Marlene Kuntz, tre decenni diventano un traguardo di tutto rilievo. Ripensando alla produzione della band piemontese, al loro percorso e alla coerenza che lo ha caratterizzato, in retrospettiva non è sorprendente che Cristiano Godano non abbia mai affrontato una prova solistica.
Il momento è arrivato e si concretizza oggi con la pubblicazione di “Mi ero perso il cuore”, attesa per i primi mesi del 2020 ma procrastinata dal disastro COVID-19. A maggior ragione, questo album è contemporaneamente traguardo e ripartenza.
Non c’ero, anche se
Molte lune fa, Gianni Maroccolo mi disse che si sarebbe recato in studio a Garlasco assieme a Cristiano per la produzione del suo primo lavoro solista. Con loro ci sarebbero stati Simone Filippi, Luca Rossi e Vladimir Jagodic, amici che avrei rivisto volentieri. Promisi che sarei passato a trovarli, la curiosità era troppa. Non ci riuscii: l’incrocio tra impegni di lavoro e problemi personali me lo impedirono.
Ebbi il grande privilegio di ascoltare l’album in anteprima verso la fine di dicembre 2019, quando la prevista pubblicazione si avvicinava, e devo dire che mi fece l’effetto di un colpo di frusta. Mi fu subito chiaro che si trattava di una prova coraggiosa, attraversata dalla disarmante onestà che solo la nudità dei sentimenti consente. Avrei voluto parlarne, ma non potevo. Ecco perché ne scrivo proprio oggi.
Acustico e inquieto
“Mi ero perso il cuore” è essenzialmente un album di ballad, attraversato da venature country e rare virate verso il rock. Un album dal suono semplice e diretto, al punto che si ha l’impressione di essere rinchiusi assieme ai musicisti nella stanza in cui hanno registrato. Anche per questo, la produzione artistica di Luca Rossi (condivisa con Gianni e Cristiano) è quanto di più rispettoso e limpido si potrebbe immaginare. Il risultato fa risuonare in mente le parole secche usate da Giovanni Lindo Ferretti, che nel 1994 scrisse a proposito di “In quiete” dei C.S.I.: «Quanta violenza può contenere un soffio? Quanta disperazione un sussurro? In quiete non è come dire relax. Credetemi».
Soffi e sussurri attraversano tutta l’opera prima del frontman dei Marlene Kuntz, mantenendosi però a distanza dalle distorsioni acide e lancinanti che caratterizzano il sound del gruppo. Qui tutto è funzionale alle melodie e ai testi, che affrontano da diverse prospettive un unico tema: quello dei demoni della mente.
Scrive Cristiano nella sua presentazione del disco:
La mente mente, si usa dire… Lasciandole troppo spazio di azione questa menzogna, potente come un virus, acquisisce poco per volta un dominio inesorabile sul suo padrone di casa. E il cuore, unica vera arma per uscirne, è destinato a soccombere, sperso in fondo al cumulo di ingannevoli messaggi e falsità. Cercarlo e ritrovarlo è il vaccino.
Album paralleli
C’è un parallelismo sottile tra questo album e un altro, appena pubblicato, che peraltro esplora lidi musicali del tutto diversi. Mi riferisco ad Alone Vol IV di Gianni Maroccolo, il cui sottotitolo è – guarda caso – “mente”. Anche il quarto volume dell’album perpetuo di Marok affronta il tema del disagio psichico, e lo rappresenta con la classica immagine del tarlo. “Mi ero perso il cuore” è un lavoro complementare, che di quel tarlo esplora scavi e percorsi, infilandosi in ogni cavità e portando alla luce tutto il materiale che trova, non importa quanto degradato. Un’opera letterariamente coraggiosa e liberatoria, paradossalmente generata dalla paura, il sentimento che attraversa come un fil rouge tutti i brani.
Verso la fine del mese di maggio è stato pubblicato il singolo “Ti voglio dire” accompagnato da un video che espone molto della poetica e dell’immaginario dai quali l’album scaturisce.
Musica depressiva?
È un ritornello desueto, sentito mille volte: “Perché questa musica è così depressiva?” La mia risposta è semplice, ed è una domanda a sua volta: “Perché non cercate di capire?”
Chiunque abbia avuto a che fare con qualcuno che attraversa le tremende paludi del disagio psichico sa bene che non esistono rimedi semplici. Il miglioramento, se mai è possibile, passa attraverso uno scavo e un’introspezione oscenamente dolorosi per chi li intraprende. Dolorosi al punto che spesso si abbandona la lotta: il male pur terribile causato dai fantasmi del presente (e del passato) è spesso più accettabile della cura, per chi soffre. Questo è un aspetto tremendo e spesso trascurato della questione: la resa al male finisce per danneggiare non solo chi vive la depressione ma anche chi tenta di stargli accanto.
Una terapia per chiunque
La terapia, però, ha molti possibili punti di accesso. Musica e poesia, spesso fuse insieme, rappresentano una delle porte più importanti per chi ne possiede la chiave, perché consentono di esporre stati di nudità interiore difficilmente raggiungibili altrimenti. Non solo: visitare i meandri del dolore di un’altra persona spesso aiuta chi soffre, perché gli fa comprendere di non essere solo.
Emblematico della nudità di chi scrive è il brano “Lamento del depresso”, che sceglierei come il più rappresentativo dell’album nonostante si distacchi dagli altri stilisticamente. L’analisi di come il protagonista (il “depresso”, appunto) allontani una persona empatica a causa dei propri fantasmi, accusandola di superficialità, viltà e vigliacchiera, è straziante nella sua nitidezza. Restano due vittime, senza appello: quel che è peggio, entrambe innocenti. Sul campo giacciono l’assassino dei sentimenti, incapace di fermare la sua mano, e il cadavere di chi ha provato in ogni modo a dargli amore, vinto non da un altro essere umano ma dal demone che lo possiede. Il brano uccide il protagonista del singolo “Ti voglio dire”, in un cerchio perfetto di dolore. Ci vuole un coraggio sovrumano per esporre la propria interiorità in questo modo, perché non è possibile farlo con la semplice immaginazione, ma solo attingendo al proprio vissuto.
Sconfitte, vittorie
L’album si apre e si chiude con due momenti di positività. Il brano d’apertura, “La mia vincita”, è la dichiarazione di vittoria del cuore sulla mente. Se il cuore torna al centro dell’esistenza, cancellando le menzogne di cui il male di vivere si nutre, il problema è risolto. Ma questo stato è duraturo? Il brano di chiusura, “Ma il cuore batte”, ci ricorda che siamo vivi nonostante tutto, e non solo: siamo dotati di un muscolo la cui funzione non si limita al pompaggio del sangue nelle vene. La cadenza incessante del battito ci rammenta che non tutto è perduto – fino all’inevitabile stop. Il tempo che abbiamo a disposizione è ciò che dovremmo sfruttare per dare spazio al bene.
In mezzo ai due estremi, undici canzoni che sondano l’ossessione dell’assenza e della perdita (“Sei sempre qui con me”), la delicatezza dell’amicizia che richiede un’apertura completa verso l’altro (“Ti voglio dire”), la paura per il futuro del mondo e della società (“Com’è possibile”). Del “Lamento del depresso” ho già scritto – è una pietra miliare del percorso. “Ciò che sarò io” esprime la desolazione del distacco che sembra recidere le radici di un rapporto e desertifica l’esistenza, mentre “Ho bisogno di te” sembra riportare un equilibrio precario. “Dietro le parole” ammonisce sulla possibile fragilità di chi fa uso di parole che affascinano chi le ascolta, come i poeti. Seguono due brani simmetrici: “Padre e figlio” e “Figlio e padre”, in cui un padre rimpiange un’accesa discussione con il figlio, e un figlio ricorda il padre in mezzo a fantasmi che generano angoscia e paura. “Panico” è un reading nervoso e quasi delirante che esprime il terrore del protagonista, mentre “Nella natura” svela la calma pacificante che il contatto con la Terra può portare alle anime colpite dal disagio esistenziale.
Se ci fossero dubbi sulle reali intenzioni e ispirazioni dell’artista, una frase tratta dal commento preparato per “Figlio e padre” è rivelatrice:
Trovo fascinoso il coraggio della paura, senza il timore di esibire sentimenti sconvenienti per il consolidamento della propria immagine pubblica.
Out of the black, and into the blue
Il ritratto di Guido Harari rappresenta alla perfezione le tensioni che Cristiano Godano riversa in questo album. Che egli sia un artista multiforme e di altissima qualità era già fuori dubbio, e basterebbe limitarsi alle sue incursioni in ambito letterario per averne prova. In questo caso, però, il passo appare davvero importante: “Mi ero perso il cuore” è un dono che l’artista-uomo fa a se stesso e al suo pubblico, ben cosciente – credo – che la deviazione dalle sonorità più tipiche dei Marlene Kuntz potrebbe spiazzare qualcuno.
Voglio credere che gli ascoltatori del gruppo apprezzeranno il coraggio (della paura) dimostrato da Cristiano. In questa curva del percorso egli ha voluto affiancarsi a musicisti eccellenti che conosce da anni, in grado di seguire e assecondare le sue idee con naturalezza e pronti mettere a disposizione la loro arte in maniera misurata e delicata. La stessa delicatezza è ciò che questo album richiede, anche nell’ascolto.
Dove si va da qui
La speranza è che “Mi ero perso il cuore” sia solo il primo capitolo di una serie, perché lo scavo può spingersi ancora più in là. In Italia abbiamo una manciata di artisti disposti a mettersi in gioco a questo livello, consci che da certi viaggi si potrebbe non tornare. Il nostro rispetto, il nostro affetto (e, mi permetto di aggiungere, il nostro denaro: compriamoli questi album, e fisici, non liquidi ed evanescenti) sono doverosi, quasi obbligatori.
Naturalmente auspichiamo che il progetto possa presto attraversare i palcoscenici italiani, quando la fine dell’emergenza renderà possibile frequentare i concerti con ragionevole sicurezza. Quella sarà la prova del nove: un livello emotivo come questo portato dal vivo può risultare dirompente, trasformando un concerto in un’esperienza catartica (perdonate i giochi di parole). Sa Dio quanto ne abbiamo bisogno: che il contatto vero sostituisca le parole scritte, declamate, vomitate sui social ogni secondo del giorno e della notte; e che quelle parole si asciughino in uno scambio di intenti poetici, umani, veri. Sofferti? Non importa, purché si riesca a comunicarli.
Tracklist e credits
Cristiano Godano
“Mi ero perso il cuore”
- La mia vincita
- Sei sempre qui con me
- Ti voglio dire
- Com’è possibile
- Lamento del depresso
- Ciò che sarò io
- Ho bisogno di te
- Dietro le parole
- Padre e figlio
- Figlio e padre
- Panico
- Nella natura
- Ma il cuore batte
Bonus Track (LP): Per sempre mi avrai
Cristiano Godano: voci, chitarre elettriche e acustiche, cori.
Gianni Maroccolo: basso, chitarre acustiche.
Luca A. Rossi: chitarre elettriche e acustiche, cori.
Simone Filippi: batteria, percussioni, cori.
Testi e musica di Cristiano Godano.
Produzione artistica: Luca A. Rossi e Gianni Maroccolo con Cristiano Godano.
Produzione esecutiva: Toni Verona per Ala Bianca Group s.r.l.
Arrangiamenti: Gianni Maroccolo, Luca A. Rossi, Simone Filippi, Cristiano Godano.
Registrato da Vladimir Jagodic presso lo Studio Angelo di Garlasco (PV).
Mixato da Luca A. Rossi presso l’Ust Rec Station.
Masterizzato da Greg Calbi con Steve Fallone presso Sterling Sound, Edgewater, NJ.