Dell’odio dell’innocenza: Paolo Benvegnù
Un quarto di secolo fa
Parlare di un album come Dell’odio dell’innocenza mi risulta incredibilmente difficile. Vorrei spiegare perché.
Non è mai facile ascoltare un nuovo lavoro di Paolo Benvegnù. Per quanto mi riguarda, la storia inizia oltre un quarto di secolo fa. Una sera dell’estate 1993, uno sconosciuto gruppo di nome Scisma salì sul palco di un concorso che si svolgeva nella mia città (“Rockereto” era il suo nome). Vinsero a mani basse. Il caso volle che premio in palio fosse un monte ore di registrazione presso il mio studio, che all’epoca is chiamava The Noisy Room.
Pezzetti di carta, prima e introvabile demo del gruppo, venne alla luce all’ultimo piano dello stabile di Via dell’Abetone, 16, a Rovereto. Era chiaro che il gruppo avesse diverse marce in più rispetto alla media, e ancora più chiaro che il vero motore fosse l’ossequioso cantante che rispondeva al nome di Paolo Benvegnù.
Perdersi, ritrovarsi
Nel 1994, lavorai con Scisma a parte di quello che sarebbe diventato Bombardano Cortina, il loro primo album autoprodotto. Dopo allora, io e Paolo ci perdemmo di vista a causa di vari fatti della vita, salvo ritrovarci per caso quasi dieci anni dopo. Il ritrovamento artistico definitivo avvenne nel 2004, all’uscita di Piccoli fragilissimi film. L’album aveva un suono per me familiare, che recuperava certe cose dei primissimi Scisma che si erano parzialmente mescolate ad altro nella loro breve carriera discografica. La sua consacrazione definitiva come solista, per quanto mi riguarda, avvenne con Le labbra (2008), che rimane a mio modo di vedere una vetta: la punta di diamante compositiva e interpretativa di un artista non semplice da inquadrare.
Ho seguito costantemente i capitoli successivi del suo lavoro (Hermann, 2011; Earth Hotel, 2014; H3+, 2017), fino a giungere a una situazione paradossale: il mio sentirmi perfettamente a mio agio con il suo modo di scrivere, ma totalmente a disagio con la mia incapacità di incasellarlo.
Apologia del non-genere
La musica di Paolo Benvegnù non ha un genere: è semplicemente la sua musica. Potremmo parlare di “canzoni”, ma questo direbbe tutto e nulla. Sarebbe un errore considerare i suoi brani come dotati di vita autonoma: hanno una propria identità, ma si realizzano completamente soltanto nel contesto dell’album a cui appartengono. Inoltre, ogni album è misteriosamente legato a tutti gli altri, come il tassello di un puzzle: interessante di per sé, ma funzionale a un’immagine più ampia.
Per questo, parlare di un album come Dell’odio dell’innocenza mi risulta incredibilmente difficile. A un giorno dalla pubblicazione (6 marzo 2020), è già troppo vicino all’osso lo scavo emotivo che Paolo da sempre mette in atto. Da vero artista, si spinge fino al proprio limite per suscitare una reazione in chi ascolta. Ed è proprio tale reazione, alla fine, che lo mantiene artisticamente in vita.
Dal punto di vista stilistico, i suoni si sono fatti più rarefatti che in passato, con meno distorsioni e manipolazioni. La struttura portante dei brani si snoda tra le melodie e le armonie non-euclidee che caratterizzano un artista che sembra violare per istinto ogni regola. Il suo linguaggio musicale è ormai riconoscibile al primo ascolto, a prescindere dall’inconfondibile timbro di voce, eppure non si replica da un album all’altro.
Lo specchio del presente
Dell’odio dell’innocenza, come tutti gli album più interessanti di questo periodo, ha il grande pregio di riflettere la contemporaneità. I versi di Paolo, talvolta ermetici, sono specchi molto efficaci di ciò che lo circonda e – necessariamente – ci circonda. Una chiave di lettura possibile consiste nel guardare al contrasto emotivo della narrazione: immagini taglienti si alternano a visioni idilliache, ma sembrano puntare sempre a un unico punto, che è il valore dell’individuo nel collettivo. Questo non è un album che ci racconta quanto in basso siamo caduti e quanto siano peggiorate le cose. Parte semmai dall’assunto che non ci sia alcuna necessità di ribadire il concetto. Racconta (come se fosse facile) lo sgomento individuale nel momento in cui ci rapportiamo con quella strana e indefinita cosa che chiamiamo “realtà”.
Di alcuni brani
Mi spingerei a dire che alcuni brani di Dell’odio dell’innocenza sono quelli che alcune firme eccellenti della canzone italiana avrebbero vergato oggi, se fossero ancora con noi. Infinito, pt. 2, ad esempio, suona come una canzone che Luigi Tenco avrebbe potuto scrivere nel 2020. Altra ipotesi sul vuoto è invece il brano che avrebbe potuto trovare spazio in Le labbra, dodici anni fa, se il Paolo Benvegnù di allora fosse stato in grado di guardare in una sfera di cristallo e vedersi nel presente attuale. Animali di superficie vola invece grazie a un testo degno di quel Sandro Luporini che tanto donò a Giorgio Gaber, probabilmente il più caustico e visionario dei cantanti (per usare un termine riduttivo) che abbia attraversato il XX secolo italiano. Tuttavia, nulla di questo è retrogrado. Ponte tra passato e presente, forse sì: ma inequivocabilmente di oggi.
Fa storia a sé la fulminante Pietre, singolo in circolazione già da un po’: è una canzone di denuncia, nel migliore stile di Paolo, ma usa la poesia al posto dell’insulto, lasciando quel tanto d’incertezza nell’interpretazione delle parole da permettere a chi ascolta di sovrapporgli il proprio significato. Brano capolavoro, comunque e a prescindere. Per non parlare del video.
Nessuna nostalgia
Non c’è nulla di retrospettivo o nostalgico, in questo album: solo uno scavo nel presente, che proietta un’immagine spiazzante e distopica. Questo accade semplicemente perché il presente è spiazzante e distopico, e a ben guardare lo è in gran parte per colpa nostra.
Come spesso accade, ho la sensazione che non ci siano grandi termini di paragone con un album di Paolo Benvegnù, tanto unico e testardamente sfuggente risulta il suo approccio alla scrittura. Quello che è certo è che ogni nota è vissuta fino in fondo ed è funzionale al tutto, non a se stessa.
Anche solo per questo varrebbe la pena di ascoltarlo. In realtà ci sono decine di motivi per cui ne vale la pena: tra questi, riportare nella musica un’etica e una forza che solo la canzone è in grado di veicolare. Tre o quattro minuti che possono dipingere un universo intero, colorarlo, riempirlo, svuotarlo, distorcerlo. Nel mezzo, quasi imbarazzati per avere causato tanto movimento, un manipolo di artisti sorpresi dalla propria stessa forza. Tra loro Paolo Benvegnù ha un posto che gli spetta di diritto.