Massimo Zamboni torna a Kreuzberg
2018, tardo autunno
Il 16 novembre Contempo Records ha pubblicato l’album Sonata a Kreuzberg con i nomi di Massimo Zamboni, Angela Baraldi e Cristiano Roversi. Il disco arriva a sorpresa, un anno e mezzo dopo la prima dello spettacolo Nessuna voce dentro, del quale è la colonna sonora. È un album bello e per certi versi disarmante, perlomeno alle mie orecchie. Per spiegare perché, devo però raccontare una piccola storia antica.
Nel 1982 uscì il quarto album di Peter Gabriel. Avevo diciassette anni e leggevo Ciao 2001, che aveva creato uno spazio per le recensioni dei lettori. Ascoltavi un disco, ne scrivevi, e se eri fortunato la tua lettera veniva pubblicata. Se eri fortunatissimo, veniva segnalata come recensione della settimana e ricevevi un album in premio.
Mi accadde due volte: quando scrissi di Gabriel, e l’anno dopo, quando scrissi dell’assai compianto Enzo Jannacci. Al primo giro, il premio fu un EP dei DAF intitolato Verlieb Dich In Mich, al secondo, il primo LP di The Waterboys. DAF stava per Deutsch-Amerikanische Freundschaft, un duo di rilievo della Neue Deutsche Welle: la New Wave declinata in tedesco. I DAF provenivano da Düsseldorf, The Waterboys da Edimburgo.
Sintesi: odiai i primi, m’innamorai irreversibilmente dei secondi, che erano assai più vicini al mio sentire. In generale, l’onda della musica elettronica non mi aveva colpito neanche di striscio. Basti dire che all’epoca non capivo né sopportavo i Kraftwerk.
A ciascuno il suo orizzonte
Più o meno in quegli anni, in particolare nel 1981, un Zamboni che non avrei ancora incontrato per lungo tempo, si recava a Berlino. Ne ha scritto in maniera mirabile nel libro Nessuna voce dentro. La prospettiva di Quella Città tagliata in due dal Muro non era certo quella che ebbi nel 2005, quando la visitai per la prima volta; tantomeno nel 2017, anno in cui l’unico a venire tagliato in due fui io.
Massimo, che pur proveniva musicalmente da esperienze simili a quelle vissute da me, si trovò immerso in un pot-pourri di suoni che probabilmente non sarebbero risultati familiari alle nostre latitudini, ma erano la colonna sonora perfetta per la distopica Berlino.
Il libro ha portato sul palcoscenico lo spettacolo omonimo, che ho avuto la fortuna di vedere due volte. Lo spettacolo ha generato l’album.
Così infine gli anni e i chilometri ci hanno portato a questo album che celebra il quartiere occidentale di Kreuzberg, luogo glorioso di residenza di migliaia di Hausbesetzer, gli occupanti di case che in quegli anni di Muro hanno dato un volto umano alla città. A lei, e a loro, va questa nostra Sonata.
Queste le parole di Massimo, che spiegano essenzialmente tutto.
Nessuna voce dentro
Il 17 maggio 2017 ero a Casalecchio di Reno per assistere alla prima nazionale di Nessuna voce dentro – Berlino millenovecentottantuno. Sul palco, assieme a Massimo, c’erano Angela e Cristiano, e lo spettacolo non era un semplice reading. L’idea, semplice e spiazzante, era quella d’inframmezzare la lettura di Nessuna voce dentro – Un’estate a Berlino Ovest con brani musicali di quel periodo. La colonna sonora, insomma, della scena in cui Zamboni si trovò catapultato quando decise di lasciare Reggio Emilia per cercare, in ultima analisi, se stesso.
Quel viaggio, come tutti sanno, fece scoccare la scintilla che avrebbe presto dato vita ai CCCP, ma questa è storia passata e forse marginale, in questo contesto. Lo spettacolo mi colpì molto, perché ritrovai brani che in qualche modo si rifacevano a un genere che avevo a suo tempo rifiutato, come ho spiegato sopra; ma anche brani assai familiari che appartenevano al mio mondo.
Nell’occasione, acquistai anche il libro, che assieme a L’eco di uno sparo è il mio preferito della produzione di Zamboni. Corsi e ricorsi storici, l’ho ri-acquistato a Vignola poco tempo fa per farne dono a Laura, che aveva perso la sua copia.
Zamboni, Baraldi, Roversi
A Casalecchio di Reno, senza nulla togliere a nessuno, la vera mattatrice della serata fu Angela Baraldi. Versatile, adattabile e in grado di passare da brani minimal-elettronici a versioni unplugged di canzoni come Bette Davis Eyes, originariamente interpretata da Kim Carnes.
Lo spettacolo, dal punto di vista musicale, fu magnetico. Zamboni spogliato della sua chitarra era dedito a domare i demoni delle frequenze gravi su un basso a quattro corde. L’atmosfera dei primi anni Ottanta emergeva prepotente, ma echi di elettronica contemporanea rendevano le canzoni vere e proprie rielaborazioni, più che semplici rivisitazioni. I brani non sarebbero stati gli stessi senza gl’interventi poliedrici ma misurati di Cristiano Roversi, che ha fatto un sacco di strada da quando registrai il secondo album dei suoi Moongarden presso il mio studio. Era giovanissimo, già tastierista e bassista, innamorato dello strumento noto come Chapman Stick che ancora non suonava. Oggi ci ritroviamo qui, guarda i casi della vita. Cristiano ha contribuito allo spettacolo anche con due brani di sua composizione, così come Massimo.
Lo spettacolo ha avuto diverse repliche, e lo rividi a Carpi il 17 settembre 2017. Quello fu l’ultimo evento al quale riuscii a portare mia madre, mancata pochi mesi dopo. Ogni tanto la invitavo ad assistere a ciò che reputavo valido, e questo sempre divertiva e arricchiva i suoi settantasette anni. Di nuovo ebbi la sensazione che quei brani fossero in realtà assai più contemporanei di quello che avrei voluto credere. Se vogliamo, più contemporanei di quanto mi sarebbe piaciuto.
Una Sonata contemporanea
Sonata a Kreuzberg contiene quattordici brani, quattro dei quali sono i già citati inediti di Roversi e Zamboni. Il repertorio si snoda attraverso i Doors, i già citati DAF, Einstürzende Neubauten, Nico, Fehlfarben, Kim Carnes, Ideal, Lou Reed, CCCP. Paradossalmente, però, suona come un tutt’uno: un film in bianco e nero composto da piani sequenza musicali. I brani evocano fantasmi di un periodo storicamente concluso, ma ancora sospeso sopra le nostre teste e forse per sempre mescolato al nostro DNA.
Oggi è difficile ritrovare a Berlino segni tangibili del Muro che per decenni spaccò in due l’occidente. Il fatale salto di Conrad Schumann sopra il filo spinato, immortalato dalla fotografia di Peter Leibing il 15 agosto 1961, è oggi una cartolina disponibile perfino negli hotel di Alexanderplatz. Un evento di portata epocale, che di fatto diede il via alla costruzione del Muro, addomesticato fino a diventare ricordo turistico.
La direzione contraria di Zamboni
Massimo Zamboni va in controtendenza, ricordandoci che in quegli anni la vera avanguardia musicale europea operava nel cuore della Germania più ancora che a Londra o a Parigi. D’altronde, la tensione che circola nell’aria alimenta sempre elettricità in grado di scatenare momenti d’irripetibile creatività. Scura e confusa quanto vogliamo, ma pur sempre vitale e feconda.
Massimo, Angela e Cristiano compiono un’operazione né facile, né scontata. Rimuovono gli orpelli estetici dai brani, scarnificandoli e chiedendosi implicitamente quale possa essere il loro valore più di trentacinque anni dopo. Con questo, ci fanno riflettere su quanto significative fossero e siano tuttora certe parole, riferite a qualcosa che oggi di fatto non esiste più. I Kebab-Träume in der Mauerstadt (“sogni al kebab nella Città del Muro”) non hanno più un senso letterale, da quando il Muro è caduto. Ne hanno, però, nel momento in cui realizziamo che lo sgretolamento del 1989 non corrispose esattamente con l’Età dell’Acquario, come avremmo sperato. Ne hanno anche quando osserviamo con occhio circospetto gli esercizi che propongono il kebab come piatto principale, non solo a Berlino. Davvero sono caduti i muri?
Dagli Ottanta a oggi
Rimuovendo la patina talvolta plasticosa di certi stilemi dei primi anni ’80, gli artisti riportano alla luce gli scheletri di canzoni segnanti per un’intera generazione. Canzoni che rischiano di esserlo ancora – magari senza che le nuove generazioni se ne rendano conto. Sconcertano, all’ascolto, la difficoltà di capire se i brani appartengano al passato o al presente, e il dubbio che possano addirittura descrivere il futuro.
Una possibile chiave di lettura di tutto il lavoro si trova forse nella copertina. La foto che ritrae un improbabile elefante rosa nella zona di Potsdamer Platz è stata scattata da Massimo nel 1981. L’elefante, c’informa l’autore, è un lavoratore stagionale presso il locale circo equestre, virato poi a un colore che ricorda quello delle Trabant, tipiche automobili dell’est.
Un elefante che attraversa una metropoli è di per sé una visione improbabile, una minoranza. Se è pure rosa, appartiene a una minoranza di una minoranza, forse ridotta a un singolo individuo. Il quale, scommetterei, non sa bene come collocarsi in mezzo alle macerie che lo circondano. Potrebbe rappresentare un artista che – come Zamboni – non ama cavalcare il consenso e cerca continuamente nuove vie per raccontarsi. La narrazione comprende un passato che ha generato la curva musicale ampissima che ben conosciamo. Chi si riconosca anche solo per un attimo nell’elefante, dovrebbe aggiungere questo album alla sua collezione, un po’ per accompagnare l’animale nel suo cammino e un po’ per farsi accompagnare.
Chi amò e chi non seguì
Chi amò la scena tedesca di quegli anni, e sono in diversi, ritroverà stimoli che ben conosce. Filtrati e rinnovati nel tempo, non tradiscono ma ricollocano gli originali. Chi non la seguì, magari scoprendola in tempi successivi e non sospetti (come me), potrà riflettere su un mondo che invece di svanire sembra essersi moltiplicato in un gioco di specchi senza fine. I muri dei decreti sicurezza, per dire, non mi appaiono così diversi dal famoso Mauer. Li trovo anzi più subdoli e pericolosi, perché immateriali.
Per quanto mi riguarda, ringrazio Massimo di avermi spinto a riascoltare i DAF che tanto mi avevano lasciato indifferente quando Ciao 2001 decise di farmi omaggio del loro EP. Se si fosse recato a Berlino solo un anno più tardi, nel 1982, forse avremmo avuto in sorte la sua rivisitazione di Der Kommissar di Falco, magari anche di quel capolavoro dimenticato che era Ganz Wien, nello stesso album Einzelhaft. Ma siamo qui e ora, nel 1981 come nel 2018, e alcuni non hanno smesso di chiedersi perché. Zamboni rimane al 100% uno di questi, di noi.